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mercoledì 20 gennaio 2010

1967: Bruno Giacosa incontra Bartolo Mascarello.

Chiedo scusa a Franco Ziliani, autore del post originale, ma a questo testimonianza di Francarlo Negro non sono riuscito a risparmiarmi un copia incolla.


1967: Bruno Giacosa incontra Bartolo Mascarello.
Alla fine di luglio del 1967, con le colline inondate da una nebbiolina di caldo afoso, mio padre, amico di Bartolo Mascarello di Barolo, organizzò una visita con Bruno Giacosa di Neive. Avevo 17 anni ed ero emozionato: desideravo non perdere nemmeno una parola dei colloqui ai quali avrei assistito.
Allora non c’era la domanda del mercato internazionale, il vino pregiato si vendeva con difficoltà, dedicato alle occasioni speciali. E la sofisticazione imperversava: grandi aziende come Marchesi di Barolo inondavano il mercato senza controlli e contadini disonesti tagliavano i nostri vini con mosti concentrati che provenivano dal sud. Manduria, in Puglia era la fonte principale di rifornimento.
Era conosciuto il caso di un operaio della Fiat originario di Neive che, rifornendosi di questa pocciacchera da una grossa cantina locale, riempiva ogni primavera le sue botti per vendere il suo “vino genuino” ai compagni di fabbrica.
Giacosa e Mascarello, con pochi altri, tenevano alta la bandiera della autenticità e tipicità, aggettivi che identificavano con sicurezza la purezza e l’identità dei due grandi vini di Langa, frutto della cultura enologica piemontese.
La cantina di Bartolo era fresca per noi che venivamo dalla calura accumulata nel trasferimento da Neive a Barolo, 12 km di asfalto ad oltre 35 gradi nella 600 con i finestrini abbassati. Le botti erano panciute e alte, di rovere di Slavonia, alcune potevano contenere 50 brinte (2.500 litri), altre 100 brinte; in tutto poco più di 15 mila litri di Barolo di annate diverse e di vigne diverse, tutte sulle colline del comune di Barolo.
Bartolo saliva sulla scala appoggiata alle botti, tirava da sopra un po’ di vino e ci porgeva i bicchieri. Il rito iniziava.
Bruno Giacosa si rivolgeva a Bartolo Mascarello col “Voi”, segno di un rispetto antico per l’autorevolezza dell’interlocutore, nonostante che Bartolo gli dicesse, ripetutamente: dammi del “tu”. Aleggiava un grande rispetto fra gli uomini e per il vino, in silenzio sorbivamo delicatamente il vino, piccoli sorsi ossigenati in bocca.
Ricordo che il Barolo del 1964 sprigionava già tutta la sua magnificenza, fine e regale. Delicatezza ed eleganza si incontravano. Il naso coglieva tenui sentori di viola e di fiori bianchi di primavera e la bocca percepiva la sensazione asprigna dei piccoli germogli della vite durante la sua fioritura.. Non si sentiva il legno, non si doveva sentire; la botte doveva svolgere un unico ruolo: accompagnare la lenta maturazione del Nebbiolo, nato allappante e scostante in Barolo, austero ed elegante.
Nel bicchiere il vino limpido non era rosso scuro, piuttosto rosso chiaro dai riflessi granati con bordi rosa aranciati. In bocca il fiore leggero lasciava il posto alla freschezza tannica che racchiudeva la finezza del vino, una sensazione austera ma invitante, che pulisce la bocca e ti dispone ad un altro sorso.
Anche il Barbaresco del 1961, che Bruno Giocosa portò per l’assaggio era più maturo, ma presentava, con tonalità un po’ diverse, caratteristiche simili al Barolo; sentore di leggero fiore di prato, più rotondo nel gusto, sicuramente più vellutato e di facile beva.
Bruno e Bartolo disquisirono sul ruolo fondamentale della terra, dei “surì”, delle vigne e del modo di coltivarla: senza sfruttarla, senza esagerare nel richiederle troppo. La qualità che ne derivava dipendeva dalla vendemmia. In quegli anni si coglievano differenze evidenti fra una annata e un’altra. Non a caso l’unico declassamento a vino rosso da tavola, in oltre 40 anni dall’istituzione della denominazione d’origine del Barolo e del Barbaresco, avvenne nel 1972, dove le troppe piogge e le nebbie permanenti fecero marcire l’uva.
Anche la vendemmia di trent’anni dopo, quella del 2002 avrebbe meritato la stessa sorte, ma la tecnologia e gli interessi dei grandi esportatori ebbero la meglio. Vennero immesse nei canali del mercato estero milioni di bottiglie di bassa qualità che però potevano fregiarsi del nome Barbaresco o Barolo DOCG.
La subalternità al gusto “internazionale” offusca l’identità del nostro vino L’avvento della domanda internazionale, iniziata nei primi anni Ottanta, offre una opportunità storica ai grandi vini di Langa: essere conosciuti sulle tavole del mondo occidentale, dall’Europa all’America al Giappone.
Questa domanda è guidata dai compratori americani che richiedono che Barolo e Barbaresco cambino per adeguarsi al gusto e allo stile del mercato di quel grande paese, possente e ignorante.
Le cantine della maggior parte dei viticoltori si adeguano, le vendite aumentano, i guadagni salgono. La cultura enologica storica del territorio viene, nella maggioranza dei casi, snobbata per avviare nuove tecniche di coltivazione, vinificazione ed affinamento, più rispondenti alla domanda estera che si avvale di una potente rete di informazione dove commercio e produzione si intrecciano.
Il punteggio ottenuto sulle riviste di settore USA determina il successo o la caduta delle vendite. Si crea un sistema articolato di relazioni fra grandi commercianti internazionali, giornalisti consenzienti, enologi disponibili. Nasce una nuova tipologia di vino che, ad eccezione di poche cantine, cambia l’identità dei grandi vini di Langa.

Barolo e Barbaresco vanigliati e fruttati.

I cambiamenti del vino “ideale” per l’esportazione sono sostanziali. Il colore deve essere più scuro, sanguigno, sinonimo di potenza, sulla falsa riga del cabernet-sauvignon, vitigno di riferimento del mercato internazionale. Nel profumo si ricerca la vaniglia e si apprezzano persino richiami speziati estranei, frutto della stagionatura nelle piccole botti tostate, le barriques francesi, rigorosamente nuove che conferiscono propri aromi e tannini e vanno a snaturare quelli tipici dei nostri vini all’origine.
Il gusto deve essere contrassegnato dal “fruttato”, sentori di frutta rossa matura, dal sapore intenso, avvolgente e coprente. Se la vendemmia non è delle migliori e la gradazione naturale è di soli 13 gradi si ricorre al salasso (quando inizia la fermentazione e le bucce formano il cappello, si tira una certa quantità di mosto dalla parte inferiore della botte, per ottenere più colore e intensità di gusto).
La tecnologia fornisce dei concentratori a bassa temperatura che evitano il sentore di frutta cotta, riducono la componente acquosa, aumentano la percentuale zuccherina. Le tecniche di fermentazione e vinificazione subiscono profonde trasformazioni sotto l’egida degli enologi innovativi.
E’ risaputo che la consulenza di un certo enologo legato alla nuova rete informativa-commerciale internazionale è il presupposto per un buon punteggio nelle guide dei vini con conseguente maggiore facilità di vendita a prezzo alto.
Il risultato finale è un vino atipico, che fa l’occhiolino ai vitigni considerati internazionali perché preferiti dagli americani e da chi non conosce la cultura del vino. L’unicità del monovitigno, il nebbiolo, perde la sua netta personalità.
Alle spalle di questi cambiamenti c’è un intreccio di interessi commerciali sostenuti da enologi asserviti e da un’informazione interessata: per molti anni la Guida del Vino del Gambero rosso e Slow food penalizzò tutti i produttori tradizionali negando loro il riconoscimento dei tre bicchieri: fra questi Bruno Giacosa e Bartolo Mascarello. I loro vini venivano considerati “agresti”.
Ps:
Gli organismi competenti della Regione hanno concesso in questi ultimi anni di impiantare nuove vigne su terreni che non sono mai stati vocati, spesso non coltivati, lasciati a bosco per l’esposizione a nord e le caratteristiche del terreno.
Terre dove i nostri vecchi, non avrebbero messo neppure i noccioli: nel 2008 la produzione del Barolo e del Barbaresco è così aumentata del 50%. Più quantità a scapito della qualità”.
Francarlo Negro Cantina del Rondò Neive







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Ivo Pages

Vedere il volto di un uomo che con l' entusiasmo di un bambino racconta il proprio vino, il proprio prodotto, la propria creatura, ha 100 volte più valore e significato di un semplice assaggio o di un' attenta degustazione.

Succede così, che solo dopo avere avuto l' immenso piacere di conoscere il signor Pages, ho avuto il piacere di conoscere davvero il suo S'Alqueria, assemblaggio di Garnacha, Carignano e un pizzico di Maccabeo. Per Ivo questa è la sua prima annata, un progetto nato dopo aver lavorato per anni nella valle del Rodano presso le leggendarie maison del Syrah.

Una produzione limitata e con un mercato difficile, causato da una denominazione (Empordà) veramente poco conosciuta e pubblicizzata.

Per questo nasce la necessità di entrare nei ristoranti di tutta Europa e parlare con i Sommeliers, con chi ha l' opportunità, il pacere ed il dovere, di far provare al cliente un' esperienza che va oltre alle banali, seppur grandi, gemme di Bordeaux e Borgogna o, per rimanere in Spagna, di Rioja e Doero.

Complimenti per la tua perla Ivo e i miei migliori auguri perchè il tuo progetto possa andare avanti ed il tuo vino entrare nell' elite dei piccoli, grandi gioielli nascosti.














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lunedì 11 gennaio 2010

Cascina Zoina

Finalmente le Colline Novaresi e l' uva Erbaluce trovano un produttore caparbio e ambizioso: Da Pos Daniela, propietaria dell' Azienda Agricola Cascina Zoina.

La cantina di Oleggio nasce nel 2004 e al momento produce 20000 bottiglie annue, sfruttando le potenzialità del particolare microclima delle colline novaresi ed delle uve Nebbiolo, Vespolina, Barbera ed Erbaluce.

Ottimi i rossi, Ghemme, Ricardo (Vespolina), Cordero e Cordero Mot(Nebbiolo), Belvedere (Barbera) e il nuovo arrivato Centoundici (di nuovo Nebbiolo).

Grande l' Esther, unico bianco di Daniela, da uva Erbaluce in purezza, splendido per complessità di profumi, freschezza e armonia... un piccolo gioiello dorato.

In cantina si lavora molto con l' acciaio inox e parte dei rossi subiscono passaggio in piccole botti di rovere. Il processo di chiarificazione si effettua tramite travasi e senza subire filtrazioni, rea di rubare l' anima al vino.

Finalmente, benvenuta Regina Erbaluce.


















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venerdì 8 gennaio 2010

Fabrizio Priod

Medico chirurgo di professione, Fabrizio comincia la sua avventura da vignaiolo part-time nel 2000, quando decide di farsi carico delle vigne situate ad Issogne e lasciate dal padre, etichettando le proprie bottiglie per poi immetterle sul mercato.
Un mercato molto più che di nicchia, vista una limitata produzione di
1500-2000 bottiglie annue, che diventa ancora più limitata se parliamo del Rouge Tonen, prezioso nettare da uve Merlot in purezza, imbottigliato in 150, 200 esemplari, che peraltro finisce praticamente tutto nella cantina dell' Hotel Bellevue di Cogne.
Un vino di rara finezza ed eleganza, capace di maturare in bottiglia per diversi anni (il 2001 dimostra di essere più che un giovincello), con carattere e personalità da non sottovalutare.

Il
Beaucqueil, che invece vien prodotto in circa 1500 bottiglie, racchiude il resto delle uve delle vigne di Fabrizio, donando un vino piacevolissimo a base di circa 30% Nebbiolo più numerose varietà tipiche della Bassa Valle.

Tecniche artigianali si seguono in vigna e cantina: letamazioni con stallatico maturo, trattamenti anticrittogamici con i metodi della lotta integrata secondo il disciplinare CE 2078/92, nessun impiego di insetticidi e diserbanti. Nella trasformazione delle uve si utilizzano sostanze chiarificanti, di qualsiasi natura esse siano, né sostanze atte a prevenire depositi più o meno fini in bottiglia, quali i bitartrati di potassio, tartrati di calcio, ecc.

Sicuramente uno tra i più interessanti e genuini Vigneron valdostani.